A fronte della “fine” dello Stato islamico proclamata con la presa di Baghouz, ritengo necessarie alcune considerazioni. In primis in merito all’evoluzione che ha anticipato la fine del Califfato come realtà fisica e territoriale; in secondo luogo sugli sviluppi che tale evoluzione ha avuto e avrà per l’Italia e l’Europa.

Crolla Baghouz, ultima roccaforte siriana di ciò che fu lo Stato Islamico nella sua essenza territoriale. Lo Stato islamico cessa di essere ciò che fu: un proto-stato teocratico sunnita, capace di amministrare, seppure in forma minimale, un’area che nel momento di sua massima estensione raggiungeva i 250.000 chilometri quadrati con una popolazione al suo interno variabile dai 6 ai 10 milioni.

A migliaia gli ex miliziani, seguaci del califfo autoproclamato Abu Bakr al-Baghdadi, che si sono arresi alle forze curde che da mesi assediavano l’area. Tra di loro anche donne e bambini, mogli e figli del califfato, cresciuti ed educati nel nome della violenza ideologica. Non mancano gli stranieri, tra quei 40mila che si sono uniti allo Stato islamico dal 2014 a oggi; oltre 5mila gli europei, 135 gli jihadisti partiti dall’Italia. Si calcola che i sopravvissuti siano circa un terzo di quelli partiti: un altro terzo sarebbero morti, i restanti sarebbero rientrati in Europa o trasferiti in Paesi terzi. 20mila, secondo le fonti intelligence statunitensi, erano i miliziani affiliati allo Stato islamico nell’autunno del 2018 in Siria e Iraq; oggi almeno la metà sarebbero ancora presenti, nelle aree periferiche e rurali irachene – laddove lo Stato islamico è nato affondando le sue radici nel malcontento delle popolazioni sunnite, marginalizzate dal governo iracheno a guida sciita – e in altre aree della Siria.

Finisce così l’esperienza statale di un’ideologia violenta ed estrema, ma i semi dello Stato islamico sono ormai stati diffusi in tutto il mondo e non sono venuti a mancare i presupposti che hanno consentito al califfato di emergere e imporsi. Migliaia di individui, la maggior parte giovani maschi con un elevato expertise militare e spinti dall’ideologia del terrore, hanno lasciato l’Iraq e la Siria e sono oggi presenti ovunque, dal Nord Africa al Medio Oriente, dall’Asia Meridionale al Sudest asiatico; dai Balcani all’Europa. E dalla Siria, dove migliaia di jihadisti sono stati catturati dalle forze statunitensi e curde, molti di loro chiedono di poter tornare nei paesi di origine, molti in Europa; e numerosi sono i bambini e le donne, molte delle quali non pentite per la scelta fatta.

La revoca della cittadinanza come prevenzione alla diffusione del virus jihadista?

La diffusione dell’ideologia jihadista che è alla base dello Stato islamico è di tipo virale, con un contagio che potremmo definire epidemico. Un’epidemia che si muove su due canali: da un lato il Web, attraverso la diffusione dell’ideologia che sfrutta i social network per la propaganda e il reclutamento; dall’altro lato la capacità attrattiva dei reduci del jihad.

Se sul piano virtuale è possibile contenere in parte l’offensiva propagandistica, seppur con grandi limiti, sul piano reale la possibilità di garantire un rientro degli jihadisti al fine di poterli processare rappresenta un pericolo diretto per la sicurezza nazionale dei Paesi da cui tali soggetti sono partiti per andare a vivere la loro esperienza nelle fila dello Stato Islamico. E se ciò vale per chi ha combattuto e si è direttamente macchiato di crimini contro l’umanità, allo stesso modo vale per le donne che si sono concesse in spose a tali soggetti e ai figli che sono cresciuti in un ambiente radicale e violento. Il rischio del rientro di questi “reduci”, e delle “passionarie” che sono state al loro fianco dando a questi dei figli, è evidente e diretto poiché anche le eventuali condanne e reclusione – non scontate per tutti i Pesi europei – aprirebbero a un’ulteriore rischio di diffusione epidemica dell’ideologia jihadista in quanto proprio le carceri rappresentano il luogo principale di radicalizzazione e adesione allo jihad violento. Pare dunque logico, come attuato recentemente dal Regno Unito, procedere alla revoca della cittadinanza per quei cittadini che si sono recati volontariamente in Siria e Iraq per combattere o sostenere quello che fu lo Stato islamico. E ciò deve valere sia per gli uomini, sia per le donne e i loro figli poiché il rischio di contagio è troppo elevato e il costo sociale in termini di insicurezza sarebbe troppo elevato.

Essendosi tali soggetti macchiati di crimini atroci in Siria e Iraq, dove nel bene o nel male esistono due stati internazionalmente riconosciuti – con tutti gli evidenti limiti oggettivi –, è alla giustizia siriana e irachena che deve essere lasciato il diritto di giudicare e sanzionare i colpevoli.

L’approccio italiano nel contrasto al terrorismo: cosa ha funzionato e quali criticità?

L’Italia sino ad oggi ha dimostrato di saper rispondere in maniera estremamente efficace alla minaccia potenziale rappresentata dal radicalismo islamico e dalla sua manifestazione violenza che è il terrorismo. La polizia di Stato, con la Digos, l’arma dei Carabinieri con il ROS e i servizi intelligence hanno saputo dimostrare un’elevata professionalità. Quale il punto di forza? E quale la differenza con gli altri paesi europei che sono invece stati colpiti da attentati terroristici?

Un punto di forza è sicuramente rappresentato all’esperienza acquisita dagli organi investigativi nazionali durante i cosiddetti “anni di piombo”; un lascito in termini di approccio e capacità operativa che ha consentito di adattarsi con estrema efficacia all’evolversi della minaccia terroristica anche di matrice islamista. Un altro fattore di forza è rappresentato dalla capacità di controllo di territorio, frutto della presenza capillare su tutto il territorio delle forze di polizia, nello specifico dei carabinieri. Un ulteriore vantaggio dell’Italia rispetto agli altri Paesi europei, l’assenza di soggetti appartenenti alla seconda e alla terza generazione di immigrati di religione musulmana, quelli che in genere compongono il grosso della massa jihadista europea. Di conseguenza ciò ha comportato un ridotto numero di soggetti da osservare e sui quali intervenire.

Infine, l’assenza del diritto di acquisizione della cittadinanza italiana attraverso l’istituto dello ius soli, ha rappresentato e rappresenta tutt’ora un elemento estremamente efficace per l’allontanamento dal territorio nazionale di soggetti che rappresentano un rischio per la sicurezza nazionale: ad oggi circa 300 sono gli individui espulsi a rischio di terrorismo e consegnati alle forze di sicurezza dei paesi di origine.

A fronte di questi punti di forza si impongono però alcune criticità.

In primis, non esiste una legge per la prevenzione del radicalismo islamico e il contrasto al terrorismo. Un progetto di legge efficace e all’avanguardia era stato presentato durante la precedente legislatura – pdl Dambruoso-Manciulli – ma, sebbene votato alla Camera e approvato da tutte le commissioni competenti del Senato, non venne inserito nel calendario per le votazioni dall’allora presidente del Senato, Grasso. Non se ne spiega la ragione, ma il fatto è che oggi siamo sprovvisti di uno strumento che avrebbe potuto agevolare il lavoro degli organi di polizia e di quelli inquirenti, e agire in termini di prevenzione su un fenomeno che toccherà sempre più anche l’Italia.

Un’altra criticità è rappresentata dalla duplicazione degli strumenti di contrasto: Digos (Polizia di Stato) e Ros (Carabinieri) svolgono un’analoga attività investigativa, benché la coordinazione delle operazioni e delle investigazioni avvenga attraverso il coordinamento della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo.

Un rischio potenziale è rappresentato da quella che io definisco “saturazione della capacità operativa”, ossia la disponibilità di operatori impegnati nell’osservazione di soggetti a rischio di radicalizzazione. Se in Francia, come i fatti hanno dimostrato, è oggi impossibile poter monitorare tutti i soggetti a rischio (cosiddetti “fiche S”) che sarebbero 30.000, in Italia ciò è ancora possibile grazie al limitato campione potenzialmente a rischio (seconde e terze generazioni di immigrati musulmani), ma non potrà essere così per molto. È sufficiente fare un veloce calcolo: per monitorare un soggetto a rischio occorre almeno un operatore che, considerate le 24 ore giornaliere e i tre turni lavorativi di otto ore, impongono l’impegno di 3 operatori di polizia per ogni sospettato: il che si traduce, nel caso francese, in un’esigenza di 90mila poliziotti. Semplicemente impossibile poter pensare di controllare tutti i sospettati. In Italia, a fronte di un limitato campione di riferimento, e di un elevato e sofisticato sistema di sorveglianza e investigazione, è ancora possibile operare efficacemente, ma non sarà così per sempre.

Infine, un rischio concreto è rappresentato da una duplice dinamica. La prima è la permeabilità dei confini, in particolare quello mediterraneo attraverso il quale è possibile che alcuni foreign fighter in fuga dalla Siria o soggetti terroristi provenienti dalla Libia possano introdursi su territorio italiano; il riferimento non va tanto agli sbarchi “di massa” dei barconi che lasciano le coste della Libia (in fase di significativa riduzione), quanto ai cosiddetti “sbarchi fantasma” in grado di trasferire dalle coste tunisine attraverso imbarcazioni sicure gruppi ridotti di 5/10 soggetti in grado di pagare cifre molto elevate (4/8mila euro) per essere trasferiti sulle coste italiane e qui, grazie ai legami con le criminalità locali, ottenere documenti falsi (il falso documentale è uno dei putni forti della criminalità pugliese e campana in particolare) e vie di facilitazione per il movimento in Italia e in Europa.

Perchè in Italia non ci sono ancora stati attentati?

Le ragioni principali sono state descritte poco sopra. Ma è necessario fare una considerazione essenziale: non è vero che il nostro paese non sia stato toccato dal terrorismo. È infatti bene ricordare che l’Italia ha subito un primo attacco suicida al Mc Donald’s nei pressi di Brescia, nel 2004, che si è concluso con la morte dell’attentatore; un secondo attacco suicida, nel 2009, alla caserma “S. Barbara” di Milano, che ha portato al ferimento dell’attaccante; un terzo attacco con “auto-ariete” lanciata contro la folla a Pompei nel 2018, conclusosi con lo schianto dell’attentatore contro le barriere di protezione e il suo successivo arresto. Dunque l’Italia è stata toccata dal terrorismo, benchè disorganizzato e non strutturato, che è da ricondursi all’ideologia e alla strategia di al-Qa’ida prima e dello Stato islamico in un secondo momento.

A margine si inserisce una nuova forma di violenza riconducibile al “terrorismo”, così come si è manifestata a marzo del 2019 a San Donato Milanese con la tentata strage da parte di un autista di bus di origine senegalese.

Il resto sono attacchi prevenuti grazie all’attività intelligence e investigativa delle forze di polizia e della magistratura impegnata nel contrasto al terrorismo.

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