La grande vittoria comunicativa di Al Shabaab sulla liberazione di Silvia Romano e il rischio per gli obiettivi nazionali nella regione. L’analisi di Claudio Bertolotti, direttore di START InSight

articolo originale pubblicato su Formiche.net del 12 maggio 2020

La cooperante italiana Silvia Romano è stata rilasciata dopo quasi 18 mesi dal suo rapimento in Kenya, il 20 novembre 2018: questo è un fatto.

Dietro alla prigionia della donna si impone Al Shabaab, organizzazione terroristica somala affiliata ad Al Qa’ida: forte di circa 9.000 militanti jihadisti, Al Shabaab è una realtà “para-statale” che fornisce servizi essenziali alle popolazioni locali, ma è al tempo stesso responsabile di attacchi sanguinosi che hanno portato alla morte 4.000 persone, in prevalenza civili. Questo è un altro fatto.

E ancora, un fattore certamente non secondario: il ruolo di mediazione, tra Al Shabaab e i servizi italiani, giocato dall’intelligence turca, che in Somalia ha consolidato una presenza ventennale estremamente vantaggiosa. Un fatto degno di nota è che l’organizzazione terrorista avrebbe per prima cercato contatti con l’intelligence italiana al fine di negoziare il rilascio della donna in cambio di un pagamento; non secondario sarebbe stato il ruolo dei servizi somali della Nisa (o Hsnq, Hay’ada Sirdoonka iyo Nabadsugida Qaranka).

Per il resto, di fronte alla sostanza di questi elementi, si sprecano le speculazioni: su chi l’abbia “tradita” e fatta rapire, sulle ragioni della sua conversione, sul suo matrimonio con un “terrorista”, sull’ammontare del riscatto pagato. Ma nulla che aggiunga qualcosa di rilevante a un’azione che ha portato al rilascio di una cittadina italiana nelle mani di un gruppo terrorista, tra i più violenti e spregiudicati che compongono la galassia jihadista.

È però opportuno fare alcune considerazioni di merito su ciò che gravita attorno alla vicenda di Silvia Romano.

In primis, il fatto che un cittadino italiano in mano ai terroristi deve, sempre e comunque, essere liberato. E questo impone due scelte: l’azione di forza o il negoziato. Non potendo puntare sulla prima opzione, per ragioni di capacità operativa (assenza di proiezione in profondità) e di opportunità politica (il timore della nostra classe dirigente di assumersi il rischio di un’eventuale conclusione tragica), il governo italiano ha scelto il negoziato e raggiunto l’obiettivo, grazie all’operato dell’Aise.

Sulla questione del possibile riscatto. Se confermato, va preso atto che ciò contribuirà ad alimentare la capacità operativa dei jihadisti somali, il che significa più vittime del terrorismo e incentivi a proseguire con la politica dei rapimenti: anche questa è una scelta politica, certo non lungimirante ma che non aveva alternative politicamente appaganti. Quel che più deve preoccupare è però l’altra grande vittoria del gruppo qaedista, quella sul piano comunicativo e propagandistico: Al Shabaab, questa la retorica, è riuscita a piegare al proprio volere un governo occidentale, obbligandolo a trattare e ad accettare le condizioni imposte. Una mossa che grava sulla vulnerabilità di obiettivi nazionali nella regione.

In terzo luogo, il ruolo di primo piano della Turchia in questa vicenda e il rapporto privilegiato con l’Italia. La vicenda mette in evidenza alcune questioni sul piano delle relazioni internazionali che riguardano le ambizioni di media potenza della Turchia. Da una parte, Ankara conferma l’efficacia del proprio ventennale attivismo nel Corno D’Africa, in particolare in Somalia; dall’altra, ipoteca il sostegno dell’Italia, direttamente in Libia o, indirettamente, con l’Unione europea o la Nato. Sarà la Turchia stessa a decidere come e quando, anche tenuto conto del ruolo sempre più marginale dell’Italia nella tutela dei propri interessi strategici.

In ultimo, sul lato umano e personale relativo alla conversione all’Islam, ritengo non ci sia molto da dire, se non il dovere e la maturità di tener conto di una situazione critica e psicologicamente stressante per una donna che per quasi 18 mesi è rimasta nelle mani di una pericolosa organizzazione terroristica legata ad Al Qa’ida. Va da sé che la conversione si inserisce all’interno di un contesto che difficilmente possiamo definire “islamico” ma che, al contrario, è fondamentalista di matrice jihadista, in cui l’interpretazione islamista si impone in termini radicali e violenti: a questa ideologia di violenza Silvia Romano è stata soggetta, e a essa potrebbe dunque essersi votata. Il tempo darà ragione o meno di questa conversione e delle sue implicazioni anche in termini di sicurezza nazionale; non spetta agli osservatori entrare nel merito ma alle istituzioni che dovranno farsi carico anche del recupero psico-fisico della donna.

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